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Psicologia della felicità: Daniel Gilbert

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Messaggio Da Bravo0 Mar 20 Mag 2008, 23:06

Psicologia della felicità: Daniel Gilbert Vicolodellafelicit5517a

Claudia Dreifus sul New York Times ha riportato una bella intervista a Daniel Gilbert, psicologo sociale ad Harvard, conosciuto anche come il Professor Felicità. Gilbert dirige infatti un laboratorio (l’hedonic psychology laboratory) in cui si studia la felicità umana.
Alla domanda sul come, quando e perché si sia avvicinato a quest’area di studio, il Prof. Gilbert ha raccontato che questo suo interesse è nato per caso in un periodo molto difficile della sua vita: era morta sua madre, aveva divorziato, il suo mentore era morto e suo figlio aveva cominciato ad avere problemi a scuola.
In quelle tristi circostanze aveva riflettuto sul fatto che, benchè la situazione fosse effettivamente tragica, egli non ne era devastato. Un giorno, a pranzo con un amico, gli aveva confessato: “Se mi avessero detto un anno fa come avrei reagito a tutto questo, avrei risposto che non sarei stato in grado di alzarmi dal letto al mattino”. Invece dal letto si alzava e, in qualche modo, andava avanti.
Riflettendo su queste cose Gilbert ha cominciato a porsi una domanda: quanto sono accurate le persone nel predire le loro reazioni emotive a eventi futuri?
L’individuazione di una risposta a questa domanda ha costituito il cuore del suo lavoro di ricerca successivo. Un lavoro che lo ha portato a verificare che la gente effettivamente non riesce a prevedere con accuratezza come reagirà in futuro ed è incapace di stabilire a priori cosa la renderà felice e cosa no.
Questo significa da un lato che ciò che immaginiamo come catastrofico, insormontabile e intollerabile potrebbe non esserlo così tanto, ma anche che ciò che immaginiamo fonte sicura di felicità potrebbe non rivelarsi tale.

Secondo Gilbert gli esseri umani tendono ad essere moderatamente felici, qualsiasi siano le loro sorti. Su una scala da 0 a 100 tendono a stimare la loro felicità intorno al 75. Mirano ovviamente a raggiungere 100 e qualche volta ce la fanno, ma non restano in quella beatitudine molto a lungo... Al contrario alcune cose come la perdita di una persona cara, la fine di una relazione o una malattia importante fanno scendere questa stima di felicità intorno a 20 o 10, ma quando questo succede si assiste a un ritorno relativamente rapido alla baseline emotiva. Un ritorno comunque più rapido di quanto ciascuno sia stato in grado di prevedere in precedenza.
Questo avverrebbe soprattutto per la presenza di un meccanismo psicologico di compensazione razionalizzante per il quale, quando accadono cose sgradevoli, le persone riescono a trovare delle giustificazioni che ne ammortizzano l’impatto. Dopo una separazione possono dire a sé stesse “non era la donna/l’uomo giusto per me”: dopo una promozione non ricevuta possono dirsi “in questo momento avevo più bisogno di tempo da trascorrere con la mia famiglia”, dopo una perdita possono pensare che “era destino, Dio l’ha chiamato a sé, sta in un posto migliore” e così via.
Questo meccanismo interviene però ad evento accaduto, mentre prima, se ce lo prefiguriamo soltanto, non siamo in grado di razionalizzarne l’impatto e prevediamo di reagire molto più negativamente. Possiamo così passare la vita a temere catastrofi che forse non accadranno e probabilmente non ci uccideranno, minando e compromettendo irrimediabilmente il presente. Le persone clinicamente depresse potrebbero invece non possedere questo meccanismo di compensazione quando l'evento si verifica e sviluppare per questo la sintomatologia depressiva, una sorta di lutto senza soluzione.

Anche ciò che immaginiamo fonte sicura di felicità potrebbe non rivelarsi tale. Gilbert ha potuto appurare nelle sue ricerche che il miglior predittore della felicità sono le relazioni umane e la quantità di tempo che le persone passano con amici e familiari. Una cosa più importante dei soldi e talvolta più importante della salute, anche se spesso questa profonda verità sfugge ai più. La maggiorparte della gente tende infatti a sacrificare le proprie relazioni sull’altare di altri miti di felicità come la realizzazione professionale, il denaro, il successo, scoprendo solo dopo che circondarsi di "cose" restituisce solo in parte ciò che si ottiene circondandosi di persone. In definitiva per Gilbert la solitudine affettiva è la forma di povertà più incoercibile e la fonte più acuta di infelicità umana.

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